Il Laos che ( forse) non esiste più

Diario di un viaggio in Laos nel 2005

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Nel Novembre del 2005 sono partita per un viaggio in Laos durato quasi due mesi. Ricordo che molta gente ai tempi non sapeva nemmeno dove si trovasse, il Laos, mentre nel frattempo è diventata una meta piuttosto in voga, almeno tra gli amanti dell’Asia. Le statistiche parlano chiaro: nel 2005 i visitatori sono stati circa un milione, mentre nel 2018 gli ingressi di stranieri hanno superato i quattro milioni.

Quello che mi accingo a raccontare è un pezzetto di Laos del passato. Un viaggio prima di TripAdvisor e prima che la connessione internet arrivasse via telefono.

Ovviamente non avevo neanche una fotocamera digitale, viaggiavo come tutti con i rullini nella borsa e facevo foto con parsimonia, senza sapere come sarebbero venute. Mi prende un po’ di nostalgia a parlarne!

Uno dei miei ricordi più belli, che ho riletto proprio in questi giorni nel diario, è l’arrivo in una Luang Prabang ancora addormentata, dopo un rocambolesco viaggio notturno. Ero arrivata alla stazione degli autobus in tempo, ma il bus era già pieno, di gente e di merci, e pronto a partire nonostante fosse ancora presto, rispetto all’orario programmato. Non trattandosi di pullman turistico ero l’unica straniera a bordo, ma in quel momento non avevo dato peso alla cosa : non immaginavo quanto scomodi potessero essere i viaggi notturni su mezzi di quel tipo! Ero giovane e ottimista. L’unico posto ancora libero era quello vicino a un monaco e adesso so di aver infranto una regola non scritta, prendendo posto accanto al giovane buddista. Al tempo non sapevo che ai monaci sono proibiti contatti fisici di qualsiasi tipo, anche una semplice stretta di mano, con persone di sesso opposto e per ciò anche il solo avvicinarsi troppo ad un monaco, da parte di una donna, è considerato sconveniente.

Un estratto del diario di viaggio in Laos

I trecento chilometri che separano la capitale Vientiane da Luang Prabang sono un lungo e acciottolato viaggio, pieno di curve e di buche, su e giù per i tornanti di montagna, con il clacson che suona in continuazione e musica laotiana che l’autista ascolta per tutta la notte. Come se non bastasse è pieno di spifferi, fa freddo e adesso capisco il perché delle coperte pesanti che gli altri hanno tirato fuori dai bagagli. Io indosso una giacca, decisamente troppo leggera, e cerco di coprirmi in qualche modo con l’unica cosa utile che sono riuscita a trovare nello zaino : un asciugamano! Dormo a intervalli.

Mi sveglio di soprassalto appena l’autobus si ferma, in un piazzale non illuminato. È buio pesto e non ho idea di che ora sia. Vedo che tutti scendono e capisco che non si tratta di una sosta perché nel corridoio c’è un viavai concitato, per scaricare i numerosi bagagli : siamo a Luang Prabang. La prima sensazione che provo è smarrimento, perché è buio, mi sono appena svegliata e non so dove andare. Controllo l’ora, sono appena le cinque. Seguo delle persone su un tuctuc e siccome nessuno parla inglese, non mi resta che sperare che siano anche loro diretti in centro. L’autista ovviamente sa dove voglio andare, a un certo punto si ferma, mi fa cenno di scendere e indica con la mano in direzione, presumibilmente, del centro. Già dopo i primi passi inizio a sentirmi più tranquilla. In giro non c’è nessuno, a parte una venditrice ambulante, con un bambino al seguito, che si avvicina con la mano tesa a mostrarmi un fagottino fatto di  foglie. Inizio a vedere delle guesthouse, ma le luci sono spente, i cortili silenziosi. Mi attraversa la mente il pensiero che se mi fossi trovata da sola, di notte, in un posto sconosciuto da qualche altra parte del mondo, forse non sarei stata così serena e invece qua in Laos mi sento tranquilla. Ora devo solo aspettare che la città si svegli. Mi siedo sul muretto davanti a una di queste guesthouse, decisa ad attendere l’alba. Dopo dieci minuti esce un uomo dalla casa vicina. È intento a svolgere un qualche lavoro, ma appena mi vede mi viene incontro e in un inglese stentato chiede se sto cercando alloggio. Mi consiglia anche lui di aspettare che faccia giorno e dice anche di scendere verso il fiume, là troverò molti più alberghi. Nel frattempo vedo l’alba, che inizia a ingrandirsi lentamente  in cielo. Con una gioia indescrivibile mi incammino lungo un viottolo tra le case, allontanandomi dalla strada principale, in direzione del fiume. Poco dopo sento dei passi alle mie spalle, mi giro e vedo il viso sorridente del signore di prima che, mi fa capire, ha deciso di accompagnarmi. Camminiamo in silenzio per queste stradine sterrate, si sentono solo i rumori della natura, tutto il resto ancora dorme. Il Mekong appare improvvisamente all’orizzonte. Attraversiamo il cortile di un monastero, dove i monaci sono già svegli e intonano i loro mantra mattutini. Alcuni sono fuori che finiscono di vestirsi, scambiano qualche parola col mio accompagnatore, poi mi salutano con un cenno del capo. Devo aspettare, per cercare un alloggio è ancora troppo presto, ma nel frattempo si è fatto giorno. Il gentile signore mi saluta e si avvia verso casa, giungo le mani davanti al petto, in cenno di ringraziamento e di saluto. Raggiungo il fiume ed è lì che inaspettatamente assisto a quello che, scopro poi leggendo la guida, è un rito giornaliero, caratteristico di questa città piena di templi buddisti e monasteri, il Tak Bat. Ci sono persone inginocchiate al lato della strada, con scodelle e cestini. Inizialmente non capisco cosa stiano facendo, ma quasi subito vedo i monaci che si avvicinano in fila indiana e si fermano a prendere queste offerte di cibo. Vedo qualche altro viso occidentale, ma siamo in pochi, regna una grande calma, un grande silenzio. Non penso nemmeno a tirare fuori la macchina fotografica, anche se il soggetto e la luce azzurrina del mattino (che aggiunge alla scena un che di mistico) sono a dir poco perfetti. Per una volta mi godo semplicemente il momento e devo ammettere che mi capita raramente, ma questa alba a Luang Prabang è pura felicità, una di quelle occasioni dove sei presente a te stesso e ti senti parte della bellezza del mondo.

La finestra della mia camera si apre sul cortile dietro ad uno dei tanti monasteri. Mi piace svegliarmi con la voce dei monaci e mi piace parlare con questi ragazzi che sono aperti con noi stranieri e desiderosi di praticare l’inglese. Luang Prabang è piena di templi e quando dico piena intendo che ce ne sono veramente tanti, uno ad ogni angolo! Alcuni sono meravigliosi, altri più modesti, ma a impressionare è la quantità e anche la popolosità dei monaci, che sono dappertutto. Molti di questi ragazzi torneranno a casa, avranno un lavoro, si sposeranno, solo alcuni sono destinati alla vita monastica, ma la tradizione vuole che ogni giovane uomo viva da monaco almeno per un periodo della propria vita.

Luang Prabang è l’Indocina ideale, che pensi non esista più ma speri di trovare: una città dai tetti d’oro, circondata dal verde della giungla e piccoli villaggi, dove il tempo scorre lento, senza traffico e con quel tocco di misticismo che coinvolge e incanta anche chi non è venuto in Asia in cerca di spiritualità.

Luang Prabang oggi : è diventata troppo turistica?

Già nel 2005 Luang Prabang era una città piuttosto turistica rispetto al resto del paese e nel corso degli anni il turismo è certamente aumentato, con tutto quello che ciò comporta. Ho letto di gente del posto che ha messo su un business fondato sulle offerte ai monaci, vendendo il riso ai turisti, a prezzi esorbitanti, perché pare che adesso molti stranieri, soprattutto cinesi, partecipino alla cerimonia del Tak Bat in prima persona. Tutt’intorno decine di altri stranieri, spettatori armati di telefoni e fotocamere che non si fanno problemi a piazzare l’obiettivo direttamente in faccia ai monaci. Tutto ciò non stupisce se si pensa che Luang Prabang è il luogo più visitato di tutto il paese e per alcuni si tratta anche dell’unica tappa in Laos, ma nonostante il suo essere estremamente turistica, è un posto magico, spirituale, con bellissimi templi, case coloniali e simpatici monaci, sempre sorridenti e felici di rispondere alle domande sul buddismo e la vita in Laos. Per questo faccio fatica a credere che il turismo sia riuscito a rubare completamente l’anima di Luang Prabang. Voglio sperare che sotto la superficie, dietro la miriade di hotel spuntati come funghi, ristoranti di cucina internazionale, persone del posto che vedono i turisti come bancomat con le gambe e stranieri irrispettosi, ci sia ancora la Luang Prabang che ho conosciuto e che spero di ritrovare, un giorno non troppo lontano.

 

 

 

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