Ultimamente si parla molto dei vantaggi del bilinguismo infantile. Studi recenti dimostrano che, i bambini esposti a due o più lingue fin dai primi anni di vita, hanno una mente più agile rispetto ai coetanei monolingue. Ad esempio, sono in grado di concentrarsi selettivamente su un’azione, senza farsi distrarre da eventuali interferenze e questo grazie all’allenamento a inibire la lingua che in quel momento non serve. Un altro esempio interessante è la capacità che hanno nel passare rapidamente da un compito all’altro, per l’abitudine a passare da una lingua all’altra e, inoltre, sviluppano una maggiore e più precoce consapevolezza che altre persone possono vedere le cose da una prospettiva diversa dalla propria. Il bilinguismo infantile predispone ad imparare con relativa facilità altre lingue straniere, anche in età adulta.
Eppure, malgrado i vantaggi riconosciuti, alcuni genitori scelgono di rinunciare alla propria lingua madre, per timore di confondere il bambino e che questi finisca per non parlare bene nessuna delle due lingue. Oppure lo fanno per favorire l’integrazione nel paese straniero in cui si trovano o indietreggiano dopo un periodo di bilinguismo iniziale, di fronte a ritardi di sviluppo del linguaggio, che possono in effetti presentarsi. Ma è un errore! Il bambino è perfettamente in grado di gestire due idiomi, a patto che venga esposto costantemente ad entrambi. E i ritardi sono solo apparenti : se prendiamo le due lingue singolarmente il bambino bilingue conosce, nei primi anni di vita, un numero di parole inferiore rispetto ai coetanei che ne imparano solo una, ma considerandole nell’insieme ha invece un vocabolario più ampio della media. È per questo che tutti i bambini bilingue attraversano una fase nella quale le frasi sono un miscuglio idiomatico apparentemente confuso : non perché non sappiano distinguere le due lingue, ma solo perché il desiderio di parlare e venire compresi è dominante e se manca un termine in una lingua, lo si prende dall’altra, senza preoccuparsi troppo di separare. Solo in seguito, con l’arricchirsi del vocabolario, il bambino inizia a differenziare.
Un altro pensiero errato è che sia meglio aspettare che si consolidi la lingua dominante, prima di inserire la seconda. Non solo non è necessario, è anche controproducente: la mente è più ricettiva nei primissimi anni di vita, attendere troppo potrebbe ridurre la capacità del bambino di crescere davvero bilingue.
Che poi il bilinguismo al 100% non esiste! I miei figli sono per metà italiani, e non ho mai pensato di parlare loro in una lingua che non fosse la mia. Da mio marito hanno imparato l’altro idioma e fuori casa lo hanno poi consolidato. Abitiamo in Germania e il tedesco è senza dubbio dominante. Con la mia prima figlia avevo creduto che se mi fossi impegnata molto, sarei riuscita a portare l’italiano al pari del tedesco, ma non è bastato l’impegno! Oggi mia figlia ha sei anni e padroneggia entrambe le lingue, ma è più visceralmente legata a quella che sente parlare da tutti intorno a sé: la usa quando gioca da sola, per dar voce a pupazzi e bambole; la usa per rivolgersi ai fratelli, anche quando sono presente io nella stanza. Non vuole più guardare i cartoni animati in italiano. Preferisce i libri in tedesco. E un po’ mi dispiace, ma devo arrendermi all’evidenza che nessuno ha due lingue: tutti, anche chi cresce bilingue, ne ha davvero solo una, la sua lingua “vera”, quella a cui è più intimamente legato, inscindibile dalla propria identità.
Identità: è proprio di questo che si tratta! Quindi, a parte i vantaggi pratici, insegnare la propria lingua è anche un gesto attraverso il quale si passano le proprie origini, le proprie tradizioni, la mentalità del proprio paese; Con suoni e parole e perfino espressioni non verbali associate alla specifica lingua, si tramanda una parte di sé, perché più di ogni altra cosa è proprio il linguaggio a sancire il senso di appartenenza al posto nel quale siamo nati: la parola è la nostra identità. La lingua fa da ponte tra i nostri figli e una parte profonda di noi, che altrimenti non conoscerebbero mai. Nessuna delle lingue che (con fatica!) ho imparato da adulta, mi appartiene come la mia, in nessuna delle altre mi sento veramente a casa. Nelle varie sfumature dell’italiano, spesso intraducibili, c’è la bambina che sono stata, ci sono i miei nonni, i miei genitori. Se i miei figli non parlassero la mia lingua, pur con tutto l’amore che provo per loro, li sentirei un po’ stranieri? O l’affetto genitoriale riuscirebbe ad azzerare le differenze e indipendentemente dalla lingua li sentirei parte di me, come adesso? Anni fa, quando già abitavo da diverso tempo all’estero, mi sono ritrovata in transito in un aeroporto italiano, uno scalo non programmato di due ore a Fiumicino, dovuto a una cancellazione. Dopo un volo intercontinentale notturno, avrei voluto tornare subito a casa, in Irlanda, e buttarmi nel mio letto, ma ricordo l’allegria provata da quell’immersione inattesa nei suoni piacevoli della mia lingua, al bar di Fiumicino. Non è la bellezza delle città o della natura della mia penisola a farmi emozionare ogni volta che torno. E non sono solo gli affetti. È piuttosto il suono dell’italiano, la sua familiarità. Ed ecco allora che anche il chiacchiericcio di perfetti sconosciuti, in un luogo asettico come lo scalo di un aeroporto, mi rilassa e mi fa pensare: qui sono a casa!